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lunedì 16 settembre 2019

Portoferraio bombardata, 16 settembre 1943


I superstiti al primo bombardamento aereo di Portoferraio (degli oltre cinquanta che la città dovette subire prima della fine del 1945) e che sono ancora vivi, hanno un ricordo di quel giorno indelebile. Profondo della mattina del 16 appunto 1943. Era una giornata di sole, come l’Elba sa regalare nel mese della vendemmia. Il rumore prima sordo, poi a mano a mano sempre più pronunciato di una squadriglia di Junkers 88 (motori Jumo 211, si alzeranno in volo 10) tedeschi, gli aerei da combattimento in picchiata della Luftwaffe. Poi le sirene d’allarme e poco dopo le prime esplosioni delle bombe seguite da una gragnola di colpi. Tutto infine immerso nel fumo denso, misto di terra e detriti. Chi ha vissuto in prima persona quei tragici momenti e che oggi ha superato gli ottant’anni ha ancora chiare le immagini. Sono passati più di settant’anni. Ma è come se fosse ieri. Quella mattina, prima di mezzogiorno, non si trovavano in città. Bensì in periferia. Chi a Carpani, come Sauro Lottini. Chi sui colli di Santa Lucia dov’era andato a far legna Carlo Gasparri. Chi infine a San Giovanni, come Giuseppe Leonelli. Fino a quel momento la guerra non sapevano cosa fosse. L’avevamo vista nei cinegiornali dell’istituto Luce che il regime propinava, oppure nei racconti di qualche reduce o soldato in licenza dal fronte. Ma mai si erano trovati in mezzo. Lo storico elbano Giuliano Giuliani scrive: “L’orologio di Porta a mare a Portoferraio segnava le 11,15 quando Giuseppe Leonelli, marinaio sul piroscafo Ebano Gasperi, raggiungeva il porticciolo di San Giovanni. Era partito a piedi da Marina di Campo che albeggiava. Era arrivato al moletto e aveva trovato ad attenderlo il collega Galliano Donnini. Ricorda Leonelli: “Salimmo a bordo della lancia e Galliano si mise ai remi indirizzando la prua verso il Gasperi”. Improvvisamente si fermò. ‘Mi sembra di udire un rumore’, disse”. Era la formazione degli aerei tedeschi in arrivo a Portoferraio. “Il rumore diventò presto un rombo. Ci voltammo e guardammo verso le colline in direzione di Capoliveri. Rimanemmo ancora immobili, per un istante. Improvvisamente fummo investiti da un fragore assordante e vedemmo apparire sulle Grotte, a bassa quota e in formazione compatta, alcuni aerei. ‘Sono gli Junkers 88 ’, gridò Galliano. Ci buttammo bocconi sul “carabottino”, in tempo per udire la prima esplosione. Rimanemmo incollati a quel legno, poi Galliano sollevò lo sguardo verso le navi: il Gasperi e lo Sgarallino, ormeggiati nella piccola baia, non correvano apparentemente alcun pericolo”. Quando fu chiaro che si trattava di un attacco aereo Sauro Lottini (all’epoca aveva 8 anni) era a Carpani. Sapeva che suo padre aveva fatto una commissione con il camion a Portoferraio. A corsa raggiunse la città. “Quando arrivai in fondo a via Guerrazzi, vidi un cumulo di macerie, calcinacci ovunque. Raggiunsi l’ingresso del Palazzo dei Merli e sopra una catasta di detriti scorsi il cappello di mio padre. Pensai subito che fosse finito sotto con il camion e a mani nude cominciai a scavare. Lui soffriva di asma e anche se non fosse stato colpito dalle bombe era a rischio di morte per tutta la polvere che c’era in giro. Mentre era intento in quel lavoro mi si avvicinò un conoscente che mi disse di aver visto mio padre sul sagrato della chiesa. Infatti lo trovai lì. Mi ricordo di averlo portato in collo a Carpani con tutti i vestiti stracciati e sporcati, ma vivo”. Carlo Gasparri invece era andato a far legna a Santa Lucia. “Dalla formazione si staccarono due aerei – ricorda – che vennero a bombardare le caserme di Albereto. Ma le bombe lasciate cadere esplosero nelle cave lì vicino. Sapevo che mio padre era andato alle pompe dell’acqua alle Foci, ma in città aveva mamma che mi aveva detto sarebbe andata alla Sace a prendere il pane con la tessera annonaria per la famiglia. Poi c’erano i miei fratelli, le mie sorelle. Ricordo che quella mattina non andai a far legna, ma mi diressi nella piana dove si era levata l’enorme nuvola di polvere grigiastra. Avvertivo un odore acre, aspro. Per fortuna i miei li trovai vivi e mia madre portò a casa un filo di pane con una scheggia dentro”. E Gasparri cita anche un episodio di un altro sopravvissuto, Enea Pacini che oggi vive a Livorno. “Quella mattina era andato fuori della scogliera di Montebello a polpi – racconta – quando una bomba esplose vicino al barchino. Suo padre fu colpito e l’imbarcazione stava affondando. Lui riuscì a guadagnare la riva e a portare a casa il padre morto. Sono scene da incubo – conclude Gasparri – che ogni tanto, all’improvviso, riemergono nelle notti di sogni agitati”.