I superstiti al primo bombardamento aereo di Portoferraio (degli
oltre cinquanta che la città dovette subire prima della fine del 1945) e che sono
ancora vivi, hanno un ricordo di quel giorno indelebile. Profondo della mattina
del 16 appunto 1943. Era una giornata di sole, come l’Elba sa regalare nel mese
della vendemmia. Il rumore prima sordo, poi a mano a mano sempre più
pronunciato di una squadriglia di Junkers 88 (motori Jumo 211, si alzeranno in volo 10) tedeschi, gli aerei da combattimento in
picchiata della Luftwaffe. Poi le sirene d’allarme e poco dopo le prime
esplosioni delle bombe seguite da una gragnola di colpi. Tutto infine immerso
nel fumo denso, misto di terra e detriti. Chi ha vissuto in prima persona quei tragici
momenti e che oggi ha superato gli ottant’anni ha ancora chiare le immagini.
Sono passati più di settant’anni. Ma è come se fosse ieri. Quella mattina, prima
di mezzogiorno, non si trovavano in città. Bensì in periferia. Chi a Carpani,
come Sauro Lottini. Chi sui colli di Santa Lucia dov’era andato a far legna
Carlo Gasparri. Chi infine a San Giovanni, come Giuseppe Leonelli. Fino a quel
momento la guerra non sapevano cosa fosse. L’avevamo vista nei cinegiornali
dell’istituto Luce che il regime propinava, oppure nei racconti di qualche
reduce o soldato in licenza dal fronte. Ma mai si erano trovati in mezzo. Lo
storico elbano Giuliano Giuliani scrive: “L’orologio di Porta a mare a
Portoferraio segnava le 11,15 quando Giuseppe Leonelli, marinaio sul piroscafo
Ebano Gasperi, raggiungeva il porticciolo di San Giovanni. Era partito a piedi
da Marina di Campo che albeggiava. Era arrivato al moletto e aveva trovato ad
attenderlo il collega Galliano Donnini. Ricorda Leonelli: “Salimmo a bordo
della lancia e Galliano si mise ai remi indirizzando la prua verso il Gasperi”.
Improvvisamente si fermò. ‘Mi sembra di udire un rumore’, disse”. Era la
formazione degli aerei tedeschi in arrivo a Portoferraio. “Il rumore diventò
presto un rombo. Ci voltammo e guardammo verso le colline in direzione di
Capoliveri. Rimanemmo ancora immobili, per un istante. Improvvisamente fummo
investiti da un fragore assordante e vedemmo apparire sulle Grotte, a bassa
quota e in formazione compatta, alcuni aerei. ‘Sono gli Junkers 88 ’, gridò Galliano. Ci
buttammo bocconi sul “carabottino”, in tempo per udire la prima esplosione.
Rimanemmo incollati a quel legno, poi Galliano sollevò lo sguardo verso le
navi: il Gasperi e lo Sgarallino, ormeggiati nella piccola baia, non correvano
apparentemente alcun pericolo”. Quando fu chiaro che si trattava di un attacco
aereo Sauro Lottini (all’epoca aveva 8 anni) era a Carpani. Sapeva che suo
padre aveva fatto una commissione con il camion a Portoferraio. A corsa
raggiunse la città. “Quando arrivai in fondo a via Guerrazzi, vidi un cumulo di
macerie, calcinacci ovunque. Raggiunsi l’ingresso del Palazzo dei Merli e sopra
una catasta di detriti scorsi il cappello di mio padre. Pensai subito che fosse
finito sotto con il camion e a mani nude cominciai a scavare. Lui soffriva di
asma e anche se non fosse stato colpito dalle bombe era a rischio di morte per
tutta la polvere che c’era in giro. Mentre era intento in quel lavoro mi si
avvicinò un conoscente che mi disse di aver visto mio padre sul sagrato della
chiesa. Infatti lo trovai lì. Mi ricordo di averlo portato in collo a Carpani
con tutti i vestiti stracciati e sporcati, ma vivo”. Carlo Gasparri invece era
andato a far legna a Santa Lucia. “Dalla formazione si staccarono due aerei –
ricorda – che vennero a bombardare le caserme di Albereto. Ma le bombe lasciate
cadere esplosero nelle cave lì vicino. Sapevo che mio padre era andato alle
pompe dell’acqua alle Foci, ma in città aveva mamma che mi aveva detto sarebbe
andata alla Sace a prendere il pane con la tessera annonaria per la famiglia.
Poi c’erano i miei fratelli, le mie sorelle. Ricordo che quella mattina non
andai a far legna, ma mi diressi nella piana dove si era levata l’enorme nuvola
di polvere grigiastra. Avvertivo un odore acre, aspro. Per fortuna i miei li
trovai vivi e mia madre portò a casa un filo di pane con una scheggia dentro”.
E Gasparri cita anche un episodio di un altro sopravvissuto, Enea Pacini che
oggi vive a Livorno. “Quella mattina era andato fuori della scogliera di
Montebello a polpi – racconta – quando una bomba esplose vicino al barchino. Suo
padre fu colpito e l’imbarcazione stava affondando. Lui riuscì a guadagnare la
riva e a portare a casa il padre morto. Sono scene da incubo – conclude
Gasparri – che ogni tanto, all’improvviso, riemergono nelle notti di sogni
agitati”.