PORTO AZZURRO
Trent'anni dalla fine di quell'agosto e
neppure sentirli. Se non, forse, nel fisico un po' appesantito
rispetto a quello che aveva a 34 anni appena compiuti. Se non lo
tradisse poi l'espressione del viso di persona matura, rispetto a
quella invece di giovane laureato che segue la moda e che amava
suonare, insieme ai suoi coetanei liceali e universitari, nel
complesso bit, esibendosi nei vari locali notturni dell'Isola. Ma per
il resto è rimasto lo stesso, Sergio Carlotti. Alto, occhialetti da
lettura e, nel 1987, sulle tempie una lievissima sfumatura di capelli
bianchi, nella folta criniera nera, che oggi è solo un ricordo.
Insomma un'aria professionale, propria di chi è calato nel ruolo in
cui crede, quello di medico della Casa di reclusione più famosa
della Toscana e oltre. “Quando Tuti entrò in Infermeria –
ricostruisce – mi scambiò per il sindaco di Porto Azzurro”. Che
successo sarebbe stato per il sequestratore di Empoli: in un colpo
solo avrebbe disposto del direttore dell'istituto Cosimo Giordano e
del sindaco di Porto Azzurro. Ma non fu così. “Lo dovetti smentire
– continua il dottore portoferraiese – Tuti non commentò oltre.
In quel momento aveva altro cui pensare”. La memoria di quei giorni
è sempre fresca in lui. Il medico non ha rimosso nulla degli eventi.
“Ho ripreso la vita di sempre – ammette, guardando alle settimane
subito dopo il sequestro – Sono rimasto al mio posto di medico del
carcere. Che è la mia missione”. E lo è tutt'ora, come quel 25
agosto, quando aprì il cancello di ferro per far entrare Tuti e
compagni. “Intuii che stava succedendo qualcosa d'insolito – dice
– da un colpo di pistola esploso d'abbasso, nel cortile. Poi arrivò
la telefonata e le cose cambiarono”. Entrarono in due gruppi
distinti. E Tuti, che sembrava il leader dei rivoltosi, agitava in
una mano la pistola e nell'altra una scatola di latta, del tipo di
quelle che si usano per conservare il tonno. Diceva esserci dentro
dell'esplosivo, una bomba artigianale. “Non mi sfiorò neppure in
un attimo la paura di non farcela – ammette – La mia vera
preoccupazione fu come dirlo a mia madre, senza impressionarla
ulteriormente. In quel periodo le sue condizioni di salute non erano
molto buone, sicché decisi di chiamarla quella sera stessa, la prima
del sequestro, e le dissi di non aspettarmi per cena ché avrei fatto
tardi”. A quell'epoca Carlotti viveva ancora con i genitori a
Carpani ed era al primo vero tirocinio della professione.
Successivamente, avrebbe vinto il concorso di cardiologia e fu
assunto stabilmente presso l'ospedale civico di Portoferraio. “Ma
ho continuato a tenere l'incarico nel penitenziario di San Giacomo”,
ammette. “Quando mi presentai agli esami del concorso, il cuore mi
batteva a mille. L'adrenalina la stava facendo da padrone nel mio
corpo. Sentivo i capelli ritti in testa. La stessa, identica
sensazione che provai nei primi momenti del sequestro. Poi all'epoca
tutto si acquietò e il mio corpo si adattò alla nuovissima
situazione. Allora pensai: 'Ma come? Sono riuscito a superare quei
difficilissimi momenti in cui la mia vita era in pericolo e adesso
non riesco a controllare le emezioni, che non sono così drammatiche
come durante il sequestro'. Appena fatto questo ragionamento, sentii
all'improvviso che il cuore cominciava a battere regolarmente. La
situazione si stava normalizzando”. Un altro effetto positivo
dell'esperienza vissuta sotto la minaccia della rivoltella di Tuti fu
la sicurezza che dimostrava quando entrava nelle celle, a visitare i
detenuti che non erano riusciti a raggiungere l'Infermeria.
Generalmente i dottori che lo avevano preceduto nell'incarico erano
accompagnati da uno o più agenti di custodia. Lui invece si
presentava da solo, con indosso il camice bianco, l'immancabile
valigetta e il fonendoscopio che gli penzolava sul petto: il suo pass
partout, il biglietto da visita. Era la reazione all'avventura
vissuta nell'Infermeria, sotto la minaccia delle armi? Può essere.
Fatto sta che Carlotti da allora assunse una maggior sicurezza.
Durante la settimana del sequestro dormiva in cella, insieme con
altre due agenti. “Un detenuto che all'interno del carcere aveva
molta considerazione – rivela il medico – fu Facchinieri. E'
stata una fortuna averlo in Infermeria. Mi ha fatto da padre e io mi
sentivo più protetto”. Ci fu anche un momento di tensione quando
dal soffitto cadde della polvere e si avvertirono dei rumori. Erano i
corpi specializzati che si schieravano per un intervento che si
sarebbe risolto con spargimento di sangue. “Dopo la richiesta non
andata a buon fine della macchina blindata del direttore – dice
Carlotti – spuntò l'ipotesi dell'elicottero. Tuti mi disse che se
fosse arrivato, io sarei stato fra gli ostaggi, avendo la stessa
altezza dei sequestratori. Tutti con il cappuccio per non essere
riconosciuti. Ma ci rendemmo presto conto che non sarebbe mai
arrivato. Invece trovava terreno fertile la trattativa avviata dal
direttore Giordano. 'Se me lo concedono – gli disse Tuti – starei
bene a Pianosa o a Montecristo'”. Gli confidò. Fu il segnale che
la trattativa aveva imboccato la strada giusta. Tuti gli rivelò la
sera prima della liberazione che avrebbe fatto esplodere le bombe
rudimentali fuori dalle inferiate. “In segno di gioia, come scoppi
d'artifico”. “Lo dissuasi. Ci sarebbe stato troppo rumore”.
Sergio Carlotti uscirà dall'Infermeria fra gli ultimi, dietro di lui
solo Cosimo Giordano.