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mercoledì 13 settembre 2017

Intervista a Sergio Carlotti sulla rivolta al carcere di Porto Azzurro

PORTO AZZURRO
Trent'anni dalla fine di quell'agosto e neppure sentirli. Se non, forse, nel fisico un po' appesantito rispetto a quello che aveva a 34 anni appena compiuti. Se non lo tradisse poi l'espressione del viso di persona matura, rispetto a quella invece di giovane laureato che segue la moda e che amava suonare, insieme ai suoi coetanei liceali e universitari, nel complesso bit, esibendosi nei vari locali notturni dell'Isola. Ma per il resto è rimasto lo stesso, Sergio Carlotti. Alto, occhialetti da lettura e, nel 1987, sulle tempie una lievissima sfumatura di capelli bianchi, nella folta criniera nera, che oggi è solo un ricordo. Insomma un'aria professionale, propria di chi è calato nel ruolo in cui crede, quello di medico della Casa di reclusione più famosa della Toscana e oltre. “Quando Tuti entrò in Infermeria – ricostruisce – mi scambiò per il sindaco di Porto Azzurro”. Che successo sarebbe stato per il sequestratore di Empoli: in un colpo solo avrebbe disposto del direttore dell'istituto Cosimo Giordano e del sindaco di Porto Azzurro. Ma non fu così. “Lo dovetti smentire – continua il dottore portoferraiese – Tuti non commentò oltre. In quel momento aveva altro cui pensare”. La memoria di quei giorni è sempre fresca in lui. Il medico non ha rimosso nulla degli eventi. “Ho ripreso la vita di sempre – ammette, guardando alle settimane subito dopo il sequestro – Sono rimasto al mio posto di medico del carcere. Che è la mia missione”. E lo è tutt'ora, come quel 25 agosto, quando aprì il cancello di ferro per far entrare Tuti e compagni. “Intuii che stava succedendo qualcosa d'insolito – dice – da un colpo di pistola esploso d'abbasso, nel cortile. Poi arrivò la telefonata e le cose cambiarono”. Entrarono in due gruppi distinti. E Tuti, che sembrava il leader dei rivoltosi, agitava in una mano la pistola e nell'altra una scatola di latta, del tipo di quelle che si usano per conservare il tonno. Diceva esserci dentro dell'esplosivo, una bomba artigianale. “Non mi sfiorò neppure in un attimo la paura di non farcela – ammette – La mia vera preoccupazione fu come dirlo a mia madre, senza impressionarla ulteriormente. In quel periodo le sue condizioni di salute non erano molto buone, sicché decisi di chiamarla quella sera stessa, la prima del sequestro, e le dissi di non aspettarmi per cena ché avrei fatto tardi”. A quell'epoca Carlotti viveva ancora con i genitori a Carpani ed era al primo vero tirocinio della professione. Successivamente, avrebbe vinto il concorso di cardiologia e fu assunto stabilmente presso l'ospedale civico di Portoferraio. “Ma ho continuato a tenere l'incarico nel penitenziario di San Giacomo”, ammette. “Quando mi presentai agli esami del concorso, il cuore mi batteva a mille. L'adrenalina la stava facendo da padrone nel mio corpo. Sentivo i capelli ritti in testa. La stessa, identica sensazione che provai nei primi momenti del sequestro. Poi all'epoca tutto si acquietò e il mio corpo si adattò alla nuovissima situazione. Allora pensai: 'Ma come? Sono riuscito a superare quei difficilissimi momenti in cui la mia vita era in pericolo e adesso non riesco a controllare le emezioni, che non sono così drammatiche come durante il sequestro'. Appena fatto questo ragionamento, sentii all'improvviso che il cuore cominciava a battere regolarmente. La situazione si stava normalizzando”. Un altro effetto positivo dell'esperienza vissuta sotto la minaccia della rivoltella di Tuti fu la sicurezza che dimostrava quando entrava nelle celle, a visitare i detenuti che non erano riusciti a raggiungere l'Infermeria. Generalmente i dottori che lo avevano preceduto nell'incarico erano accompagnati da uno o più agenti di custodia. Lui invece si presentava da solo, con indosso il camice bianco, l'immancabile valigetta e il fonendoscopio che gli penzolava sul petto: il suo pass partout, il biglietto da visita. Era la reazione all'avventura vissuta nell'Infermeria, sotto la minaccia delle armi? Può essere. Fatto sta che Carlotti da allora assunse una maggior sicurezza. Durante la settimana del sequestro dormiva in cella, insieme con altre due agenti. “Un detenuto che all'interno del carcere aveva molta considerazione – rivela il medico – fu Facchinieri. E' stata una fortuna averlo in Infermeria. Mi ha fatto da padre e io mi sentivo più protetto”. Ci fu anche un momento di tensione quando dal soffitto cadde della polvere e si avvertirono dei rumori. Erano i corpi specializzati che si schieravano per un intervento che si sarebbe risolto con spargimento di sangue. “Dopo la richiesta non andata a buon fine della macchina blindata del direttore – dice Carlotti – spuntò l'ipotesi dell'elicottero. Tuti mi disse che se fosse arrivato, io sarei stato fra gli ostaggi, avendo la stessa altezza dei sequestratori. Tutti con il cappuccio per non essere riconosciuti. Ma ci rendemmo presto conto che non sarebbe mai arrivato. Invece trovava terreno fertile la trattativa avviata dal direttore Giordano. 'Se me lo concedono – gli disse Tuti – starei bene a Pianosa o a Montecristo'”. Gli confidò. Fu il segnale che la trattativa aveva imboccato la strada giusta. Tuti gli rivelò la sera prima della liberazione che avrebbe fatto esplodere le bombe rudimentali fuori dalle inferiate. “In segno di gioia, come scoppi d'artifico”. “Lo dissuasi. Ci sarebbe stato troppo rumore”. Sergio Carlotti uscirà dall'Infermeria fra gli ultimi, dietro di lui solo Cosimo Giordano.