Cerca nel blog

venerdì 19 gennaio 2018

I tesori della cosiddetta arte minore elbana da salvaguardare



PORTOFERRAIO
Un patrimonio artistico lasciato nei magazzini a invecchiare. O a ricoprirsi di polvere, in attesa che gli enti preposti decidano concordemente di rendere fruibile alla collettività il bene del quale sono in possesso. E’ la storia della statua lignea di Sant’Antonio da Padova che da anni si trova nel deposito della biblioteca Foresi, al centro De Laugier. Gli fa compagnia il lapidino di circa 80 centimetri, con il simbolo mariano bello in mostra (lettera A sovrapposta a una M) che stava sopra l’ingresso del tempietto, rinvenuto per caso nel settembre dell’anno scorso da Paolo Cassini. Ambedue provengono dalla cappella votiva dell’ex tonnara dell’Enfola, attuale sede del parco nazionale dell’arcipelago toscano. Il quale annunciò, alla fine del mese di settembre 2017 che, grazie alla collaborazione con gli Amici dell’Enfola e il Comune di Portoferraio, era terminato il restauro di quella che fu la Cappella della Madonna del Rosario, a ridosso dell'arsenale della tonnara. A fianco la sagrestia e il magazzino del sale. La cappellina era arricchita sull’altare da una tela raffigurante la “Madonna del rosario con san Domenico” e, in una nicchia sulla destra dell’altare stesso, dalla statua lignea di Sant’Antonio da Padova. Al lato erano murate le lapidi di Fortunato Senno (1746-1823), figlio di Pellegro, affittuari della tonnara. Il complesso era abitato per soli alcuni mesi all’anno dai tonnarotti che vivevano come in una piccola comunità, in cui non poteva mancare l’elemento religioso. Il quadro restaurato lo si può ammirare oggi nella chiesa di San Giuseppe di Carpani, sotto la cui giurisdizione ricade la frazione dell’Enfola. Dipinto e statua sono stati restaurati grazie alla Fondazione Cassa di Risparmi di Livorno, in occasione della “Quinta settimana dei beni culturali e ambientali”, organizzata nell’aprile 2009. Dopo la presentazione al pubblico sorse il problema in quale sito collocare le opere d’arte. La soluzione più scontata apparve la vecchia cappellina dell’Enfola, che però nel frattempo era divenuta un magazzino. Comune di Portoferraio, Soprintendenza, Curia di Massa Marittima-Piombino e ‘Amici dell’Enfola’ concordarono di affidare la statua alla biblioteca Foresi, in attesa che si eseguissero i lavori di restauro della piccola cappella. E lì, a tutt’oggi è rimasta. Si tornò a parlare di queste due opere d’arte nel 2010 per mezzo di una classe della media Pascoli dell’allora insegnanti Marisa Sardi e Rita Rossi che condusse un’indagine approfondita. La scultura presenta il santo da Padova che tiene in braccio il Bambinello. “Non si conosce l’autore – si legge nella relazione degli studenti – dell’opera risalente al XVII secolo, ma è lecito pensare che sia genovese, come i proprietari della fabbrica, la famiglia Senno”. La statua presenta il retro liscio e vuoto. Il che fa pensare che in precedenza era una polena, che poi fu usata nella chiesetta dell’Enfola. Veniamo al quadro. Il trittico della “Madonna del rosario”, con san Domenico e san Pietro Martire (in alcuni casi con santa Caterina da Siena) di origine domenicana, apparve la prima volta a Colonia ed ebbe una grande diffusione nel XVII secolo. Nella tela dell’Enfola è rappresentato solo san Domenico con la stessa sulla testa, simbolo della luce che illumina le menti, secondo la tradizione dei Catari. Conclude la relazione degli studenti: “Queste opere sono un bene artistico da apprezzare e da tramandare ai posteri”.

domenica 14 gennaio 2018

Il canto della Befana a Rio Castello



Come ogni anno, anche quest’anno, per le piazze del paese di Rio nell’Elba e le sue viuzze medievali si è cantata la Befana, il canto con cui un gruppo di volontari riesi, accompagnati da quattro o cinque strumenti musicali, faceva il giro delle famiglie del paese e fermandosi ai portoni dava l’annuncio che era nato il Redentore del Mondo in un lontano borgo della Palestina e augurava al padron di casa e a tutta la compagnia le più belle nove che si potessero immaginare. A patto poi che il padron di casa, sentendosi chiamare per nome, non si affacciasse sulla soglia di casa e a quei quattro cantori e musicanti non aprisse la cantina per far loro assaggiare il vino novello di vendemmia. Quando poi non c’era anche da consumare uno spuntino a base di salame o salsicce comprate fresche fresche al macello di Romeo. Sicché, fermati da una parte, rifai una sosta da un’altra (non si poteva rinunciare di non accettare il piccolo rinfresco, altrimenti il capofamiglia si sarebbe offeso), alla fine i befanotti più che gioiosi finivano per essere brilli e le note, vuoi per il freddo dei grigiori invernali, vuoi per effetto del brunello così generoso, stentavano a uscire dagli ottoni e il capo corista non faceva più notizia se si scordava le parole. Così si continuava fino a tarda notte. E per noi fanciulli che andavamo a letto abbastanza presto, altrimenti la Befana, vedendo ancora accesa la luce di cucina, non avrebbe riempito le calze che pendevano dal camino pronte ad accogliere i regali che avevamo richiesto, facevamo fatica ad addormentarci per l’agitazione. Ma volevamo aspettare il concertino dei musicanti e sentire pronunciato dal coro il nome della nostra famiglia. Era segno di rispetto. Ma anche d’importanza nel contesto paesano, che faceva crescere l’autostima degli interessati. Così era la tradizione. Così si faceva nel corso degli anni. Tutto questo avveniva in comune accordo fra i musicanti e il gruppo di volontari, gli stessi di ogni anno. Ma all’epoca, l’evento non richiamava tante persone. Come accade oggi. Com’è avvenuto nell’ultimo evento di quest’anno. Una traccia di quest’antica usanza ce la fornisce lo storico Eugenio Branchi, già nel 1839, che aggiunge anche il testo del canto. Eccolo, come ci è stato documentato: «Noi vi diam la buonasera, generosa compagnia, saluteremo il padron di casa con la nobil compagnia. Santa nova noi vi diamo: che l'è nato il Re del Mondo in un parto così giocondo, noi convien che l'annunziamo. Egli è nato in Betlemme, in città della Giudea presso di Gerusalemme, sopra il fien dove giacea. Per presepio una capanna, fatta l'è di stipa e fieno, la soffitta era di canna, le lucenti a ciel sereno. I Re Magi sono partiti dalla propria abitazione, sono giunti a questi lidi per trovare il Redentore. "Buona gente, dove andate che portate tanti doni?" "Noi andiamo a trovare il Signore dei signori". Falso Erode e traditore diede luce ai suoi intenti, per uccidere il Signore fece strage d'innocenti. La Madonna fu avvisata che di lì fosse partita, ubbidiente all'imbasciata si nascose fra la stipa. Ma la stipa traditora in quel punto fu fiorita, diede segno a tali signori che di lì fosse partita. "Buona donna, dove andate e in grembo che ci avete?" "Io ci ho quel che cercate, gran Signor se lo volete." Un di loro la guardava per vedere cosa ci aveva, e dal grembo grano versava, bel miracolo faceva. La Befana abbiam cantato in onor di Dio potente, saluteremo il padron di casa. Felice notte, o brava gente». E annunciava che i cantori e i musicanti sarebbero ritornati il prossimo anno, come puntualmente avveniva. Fino a quest’edizione 2018. Naturalmente le strofe venivano di volta in volta riviste, adattate e anche semplificate. Ma soprattutto ridotte. E non si sa se per ritornare presto nelle proprie case o se succedeva per effetto delle troppe frequentazioni nelle cantine dei cittadini riesi. A questo proposito ricordo un episodio (anch’io feci parte, quando l’età me lo permise, del gruppo dei cantori riesi) che riguarda il suonatore del tamburo. Durante uno degli spostamenti dei befanotti tra il rione alto e quello basso del paese, lo perdemmo. Ce ne accorgemmo solo quando ci disponemmo per cantare alla porta di un riese ai Canali. Eseguimmo il pezzo. Ma al termine ci mettemmo a cercarlo. Lo trovammo lungo uno stradello, disteso sotto un enorme lentisco con il tamburello sopra il torace. “C’era buio e sono inciampato – si giustificò – Però sono stato bravo – concluse – Nella caduta sono riuscito a non romperlo”.