L’amore per la cultura e non solo. Anche per l’arte
tout court. La passione per il collezionismo, la natura e le armi. Tessera dopo
tessera prende forma la figura poliedrica e dai molteplici interessi (in parte
trasmessi in eredità dalla famiglia, in parte dall’ambiente fiorentino che ha
frequentato per lunghi periodi) di Mario Foresi, il fondatore della biblioteca comunale
che porta il suo nome. Ma anche l’artefice di un vero tesoro conservato nei
magazzini. Qualche volta esposto, sia pure a tratti. Il più delle volte invece
lasciato sulle scansie. Una collezione accumulata e arricchita via via di vere
e proprie eccellenze. Poi donata alla comunità elbana, a dimostrazione del suo
smisurato amore per l’Isola, perché le nuove generazioni ne traessero
vantaggio. In primis per la loro formazione culturale. Convinto qual era che i
saperi rendono gli uomini sempre più liberi. Lo spinse la passione per le
lettere a raccogliere opere del ‘500, ‘600 e ‘700. Alcune di queste in edizioni
così rare e preziose al punto che neppure la biblioteca Nazionale di Firenze ne
conserva una copia. Sono state fatte oggetto di studi universitari. E una
mostra fu allestita nel 1983. Poi le cinquecentine furono depositate sugli
scaffali. L’esposizione fu curata da Marina Grazia Barboni, in collaborazione
con il Comune di Portoferraio, la Regione toscana e il Dipartimento Istruzione,
Servizio beni librari e archivistici. In quella occasione fu anche pubblicato
il catalogo dell’intera raccolta; alcuni esemplari furono esposti in bacheche
di vetro alla visione del pubblico che ebbe così l’opportunità di ammirare i
frontespizi (e anche il resto conservato fino a quel momento sugli scaffali)
dei volumi. Stessa sorte che hanno seguito le tavole anatomiche edite a Venezia
agli inizi del 1800, a cura di Leopoldo e Floriano Caldani, fisiologi,
anatomisti e scienziati italiani. Infatti, nella primavera del 2008
nell’archivio storico presso il centro De Laugier, fu organizzata
un’esposizione nel corso della quale furono mostrati quattro tomi di disegni e
un’altra opera appena restaurata con il contributo della Fondazione Cassa di
Risparmi di Livorno, formata da 400 fogli. L’idea fu lanciata da Giuseppe Battaglini,
direttore all’epoca della Foresiana. Il quale, non potendo disporre dello
spazio necessario per sistemare adeguatamente l’intera collezione, pensò bene a
praticare il sistema della rotazione delle tavole. Ogni giorno, qualcosa di
diverso e non meno interessate della giornata precedente, mettendo però a
disposizione del visitatore il volume contenente la completa raccolta. Fu così
tanto il clamore di queste tavole che furono diversi atenei italiani a
interessarsi alla collana di Foresi. Sempre nella primavera del 2008 una
seconda mostra, non meno interessante della precedente. Si trattava questa
volta di armi. In tutto una ventina, alle quali si aggiunsero successivamente altre
acquisizioni di varia provenienza, compresi i lasciti di altri elbani, come
quello del generale Ulisse Aronni. E' lo stesso Foresi, nel suo inventario
dattiloscritto, a parlarcene dettagliatamente. Sono pezzi unici. Eccezionali.
Con un pedigree di tutto rispetto, come le spade del duello del patriota
Gabriele Pepe e Alphonse de Lamartine esposte in vetrina nella pinacoteca, come
le due pistole di proprietà di re Giorgio d'Inghilterra o quelle appartenute al
principe Luigi Napoleone. Tutti esemplari attorno ai quali si è dipanata la
storia del continente europeo. E si arriva così, infine, al maggio 2013.
Nell’archivio storico del Comune fu presentato l’erbario di Joseph Antoir,
medico chirurgo militare francese con la passione per la botanica. Il dottore realizzò
la raccolta intorno agli anni 1810-1830. Essa comprende piante dell'Isola
d'Elba, della Toscana, dell'Egitto, della Siberia, della Cina. Nei depositi
della Foresiana ci sono 20 grosse scatole numerate progressivamente. Sulla
costola sono applicate a mano e in stampatello le etichette dove spicca, a
grossi caratteri, la scritta "Herbier". Scrisse su "Lo
Scoglio" Aulo Gasparri: "Raccolte in fascicoli si trovano ben
conservate alghe, licheni, funghi, felci e piante di ogni genere. Ogni
esemplare è ben disseccato come se fosse stato raccolto di recente". Una
cura quasi maniacale per i particolari, un valido aiuto per conoscere meglio il
mondo esterno. Per apprezzarlo, amarlo e modificarlo senza però distruggerlo.
Peccato che tutto questo sia chiuso in scatole di cartone accatastate nel
deposito del De Laugier.
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domenica 18 febbraio 2018
venerdì 2 febbraio 2018
Storia di un brigante
Il brigante Guazzino (al secolo Antonio Guazzini),
originario di Casacce Sinalunga (Siena), non è così famoso come il ‘Passator
cortese’ (Stefano Pelloni, figura leggendaria della Valmarecchia di Romagna)
immortalato da Giovanni Pascoli in una sua famosa lirica e da Garibaldi come
bravo italiano che sfida i dominatori, ma anche il senese, ai suoi tempi, è
stato un fuorilegge temuto nel Granducato di Toscana, se per eseguire la
condanna a morte sulla forca, cui fu condannato dal tribunale il 22 febbraio
1817 per omicidio e grassazione, fu chiamato a Firenze dallo Stato Pontificio
un professionista in termini assoluti, quel tal mastro Titta, “er boia de
Papa-re” (all’anagrafe romano rispondeva al nome di Giovanni Battista Bugatti),
dall’alto delle sue 514 sentenze di morte eseguite in quasi 70anni d'attività.
Così celebre mastro Titta, da essere perfino interpretato da Aldo Fabrizi nelle
prime edizioni del ‘Rugantino’. Due big, insomma: uno il carnefice, l’altro il
bandito. Guazzino assaliva le carrozze e terrorizzava i viaggiatori che si
spostavano da una città all’altra in questa parte della Toscana. Titta li
consegnava invece alla giustizia divina. Due vite che a un certo punto
s’incrociarono: il primo, ladro conclamato. Il secondo, carnefice. Due storie
che s’incastrano perfettamente, trovando l’una ragion d’essere nell’altra.
Comunque sia, sarebbero finite nell’alveo delle infinite vicende giudiziarie
ottocentesche che hanno caratterizzato l’Italia preunitaria, se un personaggio
non le avesse tenute insieme e ce li avesse tramandate. Parliamo di Sandro
Foresi, letterato elbano di raffinata e profonda cultura, poeta lui stesso,
personaggio eclettico, amante dell’arte tout court con la passione del
collezionismo. Aveva un fiuto particolare nel selezionare gli oggetti.
Raccoglieva soltanto ciò che gli trasmetteva particolari emozioni e sensazioni
forti. E dovette avvertire un sentimento del genere, quando si trovò di fronte
al crocifisso (alto non più di 25 cm) che gli mostrò l’amico pittore Emilio
Lapi. Non tanto per il simbolo in sé, quanto per la storia che era legata a
esso. Il pittore fiorentino gli confessò di averlo ricevuto da un frate, quel
tal padre Bernardino dell’oratorio che era nei pressi di ponte alla Carraia. Il
religioso era solito accompagnare i condannati a morte dalle prigioni
granducali, dove erano stati alloggiati immediatamente dopo il pronunciamento
del tribunale, fino al patitolo di Porta alla Croce, esattamente al centro
dell’odierna piazza Beccaria, dove attualmente si trovano le isole pedonali.
Questo piccolo crocefisso fu porto al condannato. Che era appunto Guazzino,
pochi istanti prima che mastro Titta infilasse al collo del disgraziato la
corda con il nodo scorsoio. Fin qui niente di eccezionale; anzi uno spettacolo
abbastanza consueto, se non fosse per il fatto che Guazzino fu l’ultimo a
esalare il respiro dalla forca. Dopo di lui infatti, il governo granducale optò
per la decapitazione, più istantanea e meno dolorosa. Come si sa il Granducato
abolì la pena di morte il 30 novembre 1786, per poi reinserirla nel 1790 per i
cosiddetti crimini eccezionali; infine l’abrogò definitivamente il 30 aprile
1859, alla vigilia del referendum che sanciva l’unione della Toscana al neonato
Stato Italiano. Quindi Guazzino fu l’ultimo a subire le sofferenze dell’esecuzione
capitale e per questo che Mario Foresi chiese e ottenne il crocifisso, al quale
si premunì di dotarlo di un piedistallo. Sotto di esso di sua mano scrisse
come, quando e da chi l’aveva avuto. Era l’anno 1888. E mentre mastro Titta,
grazie alla sua conclamata abilità in ogni genere di supplizio dalla mazzola,
allo squarto, alla forca per finire alla ghigliottina, indossando sempre una
tunica e cappuccio rosso quasi fosse un attore teatrale, si trasformò in
personaggio leggendario, Guazzino invece non è andato oltre a uno sbadito
ricordo di storia, sia pur contribuendo con le sue imprese a creare attorno
alla figura del brigante, nei molti scritti post-unitari, quell’alone romantico
di generoso ribelle, eroe di protesta individuale e disperata contro gli
oppressori. In conclusione, un altro reperto storico conservato in una teca nel
deposito della Foresiana, a dimostrazione del fatto, qualora ce ne fosse bisogno,
di quanti tesori nascosti si trovino in quelle stanze.

venerdì 19 gennaio 2018
I tesori della cosiddetta arte minore elbana da salvaguardare
PORTOFERRAIO
Un patrimonio artistico lasciato nei magazzini a
invecchiare. O a ricoprirsi di polvere, in attesa che gli enti preposti
decidano concordemente di rendere fruibile alla collettività il bene del quale
sono in possesso. E’ la storia della statua lignea di Sant’Antonio da Padova
che da anni si trova nel deposito della biblioteca Foresi, al centro De
Laugier. Gli fa compagnia il lapidino di circa 80 centimetri, con il simbolo
mariano bello in mostra (lettera A sovrapposta a una M) che stava sopra
l’ingresso del tempietto, rinvenuto per caso nel settembre dell’anno scorso da
Paolo Cassini. Ambedue provengono dalla cappella votiva dell’ex tonnara
dell’Enfola, attuale sede del parco nazionale dell’arcipelago toscano. Il quale
annunciò, alla fine del mese di settembre 2017 che, grazie alla collaborazione
con gli Amici dell’Enfola e il Comune di Portoferraio, era terminato il
restauro di quella che fu la Cappella della Madonna del Rosario, a ridosso
dell'arsenale della tonnara. A fianco la sagrestia e il magazzino del sale. La
cappellina era arricchita sull’altare da una tela raffigurante la “Madonna del
rosario con san Domenico” e, in una nicchia sulla destra dell’altare stesso,
dalla statua lignea di Sant’Antonio da Padova. Al lato erano murate le lapidi
di Fortunato Senno (1746-1823), figlio di Pellegro, affittuari della tonnara.
Il complesso era abitato per soli alcuni mesi all’anno dai tonnarotti che
vivevano come in una piccola comunità, in cui non poteva mancare l’elemento
religioso. Il quadro restaurato lo si può ammirare oggi nella chiesa di San
Giuseppe di Carpani, sotto la cui giurisdizione ricade la frazione dell’Enfola.
Dipinto e statua sono stati restaurati grazie alla Fondazione Cassa di Risparmi
di Livorno, in occasione della “Quinta settimana dei beni culturali e
ambientali”, organizzata nell’aprile 2009. Dopo la presentazione al pubblico
sorse il problema in quale sito collocare le opere d’arte. La soluzione più
scontata apparve la vecchia cappellina dell’Enfola, che però nel frattempo era
divenuta un magazzino. Comune di Portoferraio, Soprintendenza, Curia di Massa
Marittima-Piombino e ‘Amici dell’Enfola’ concordarono di affidare la statua
alla biblioteca Foresi, in attesa che si eseguissero i lavori di restauro della
piccola cappella. E lì, a tutt’oggi è rimasta. Si tornò a parlare di queste due
opere d’arte nel 2010 per mezzo di una classe della media Pascoli dell’allora
insegnanti Marisa Sardi e Rita Rossi che condusse un’indagine approfondita. La
scultura presenta il santo da Padova che tiene in braccio il Bambinello. “Non
si conosce l’autore – si legge nella relazione degli studenti – dell’opera
risalente al XVII secolo, ma è lecito pensare che sia genovese, come i
proprietari della fabbrica, la famiglia Senno”. La statua presenta il retro
liscio e vuoto. Il che fa pensare che in precedenza era una polena, che poi fu
usata nella chiesetta dell’Enfola. Veniamo al quadro. Il trittico della
“Madonna del rosario”, con san Domenico e san Pietro Martire (in alcuni casi
con santa Caterina da Siena) di origine domenicana, apparve la prima volta a
Colonia ed ebbe una grande diffusione nel XVII secolo. Nella tela dell’Enfola è
rappresentato solo san Domenico con la stessa sulla testa, simbolo della luce
che illumina le menti, secondo la tradizione dei Catari. Conclude la relazione
degli studenti: “Queste opere sono un bene artistico da apprezzare e da
tramandare ai posteri”.
domenica 14 gennaio 2018
Il canto della Befana a Rio Castello
Come ogni anno, anche quest’anno, per le piazze del paese di
Rio nell’Elba e le sue viuzze medievali si è cantata la Befana, il canto con
cui un gruppo di volontari riesi, accompagnati da quattro o cinque strumenti
musicali, faceva il giro delle famiglie del paese e fermandosi ai portoni dava
l’annuncio che era nato il Redentore del Mondo in un lontano borgo della
Palestina e augurava al padron di casa e a tutta la compagnia le più belle nove
che si potessero immaginare. A patto poi che il padron di casa, sentendosi
chiamare per nome, non si affacciasse sulla soglia di casa e a quei quattro
cantori e musicanti non aprisse la cantina per far loro assaggiare il vino
novello di vendemmia. Quando poi non c’era anche da consumare uno spuntino a
base di salame o salsicce comprate fresche fresche al macello di Romeo. Sicché,
fermati da una parte, rifai una sosta da un’altra (non si poteva rinunciare di
non accettare il piccolo rinfresco, altrimenti il capofamiglia si sarebbe
offeso), alla fine i befanotti più che gioiosi finivano per essere brilli e le
note, vuoi per il freddo dei grigiori invernali, vuoi per effetto del brunello
così generoso, stentavano a uscire dagli ottoni e il capo corista non faceva
più notizia se si scordava le parole. Così si continuava fino a tarda notte. E
per noi fanciulli che andavamo a letto abbastanza presto, altrimenti la Befana,
vedendo ancora accesa la luce di cucina, non avrebbe riempito le calze che
pendevano dal camino pronte ad accogliere i regali che avevamo richiesto,
facevamo fatica ad addormentarci per l’agitazione. Ma volevamo aspettare il
concertino dei musicanti e sentire pronunciato dal coro il nome della nostra famiglia.
Era segno di rispetto. Ma anche d’importanza nel contesto paesano, che faceva
crescere l’autostima degli interessati. Così era la tradizione. Così si faceva
nel corso degli anni. Tutto questo avveniva in comune accordo fra i musicanti e
il gruppo di volontari, gli stessi di ogni anno. Ma all’epoca, l’evento non
richiamava tante persone. Come accade oggi. Com’è avvenuto nell’ultimo evento
di quest’anno. Una traccia di quest’antica usanza ce la fornisce lo storico
Eugenio Branchi, già nel 1839, che aggiunge anche il testo del canto.
Eccolo, come ci è stato documentato: «Noi vi diam la buonasera, generosa
compagnia, saluteremo il padron di casa con la nobil compagnia. Santa nova noi
vi diamo: che l'è nato il Re del Mondo in un parto così giocondo, noi convien
che l'annunziamo. Egli è nato in Betlemme, in città della Giudea presso di
Gerusalemme, sopra il fien dove giacea. Per presepio una capanna, fatta l'è di
stipa e fieno, la soffitta era di canna, le lucenti a ciel sereno. I Re Magi
sono partiti dalla propria abitazione, sono giunti a questi lidi per trovare il
Redentore. "Buona gente, dove andate che portate tanti doni?"
"Noi andiamo a trovare il Signore dei signori". Falso Erode e
traditore diede luce ai suoi intenti, per uccidere il Signore fece strage
d'innocenti. La Madonna fu avvisata che di lì fosse partita, ubbidiente all'imbasciata
si nascose fra la stipa. Ma la stipa traditora in quel punto fu fiorita, diede
segno a tali signori che di lì fosse partita. "Buona donna, dove andate e
in grembo che ci avete?" "Io ci ho quel che cercate, gran Signor se
lo volete." Un di loro la guardava per vedere cosa ci aveva, e dal grembo
grano versava, bel miracolo faceva. La Befana abbiam cantato in onor di Dio
potente, saluteremo il padron di casa. Felice notte, o brava gente». E
annunciava che i cantori e i musicanti sarebbero ritornati il prossimo anno, come
puntualmente avveniva. Fino a quest’edizione 2018. Naturalmente le strofe
venivano di volta in volta riviste, adattate e anche semplificate. Ma
soprattutto ridotte. E non si sa se per ritornare presto nelle proprie case o
se succedeva per effetto delle troppe frequentazioni nelle cantine dei
cittadini riesi. A questo proposito ricordo un episodio (anch’io feci parte,
quando l’età me lo permise, del gruppo dei cantori riesi) che riguarda il
suonatore del tamburo. Durante uno degli spostamenti dei befanotti tra il rione
alto e quello basso del paese, lo perdemmo. Ce ne accorgemmo solo quando ci
disponemmo per cantare alla porta di un riese ai Canali. Eseguimmo il pezzo. Ma
al termine ci mettemmo a cercarlo. Lo trovammo lungo uno stradello, disteso
sotto un enorme lentisco con il tamburello sopra il torace. “C’era buio e sono inciampato
– si giustificò – Però sono stato bravo – concluse – Nella caduta sono riuscito
a non romperlo”.
sabato 25 novembre 2017
La cittadella sotterranea
La chiamano, semplificando molto e
accorciandone il nome, Cittadella sotterranea. Altri non è che il
deposito di nafta e carburante della Regia Marina Militare Italiana,
realizzato negli anni Trenta nei sotterranei delle fortezze
mediceo-lorenesi di Portoferraio. Serviva, soprattutto durante
l'ultimo conflitto mondiale, come base di rifornimento alle navi da
guerra di stanza a La Spezia e Genova che operavano sul quadrante
Alto Tirreno. Facevano scalo alla punta del Gallo incrociatori, mas,
dragamine e pure sommergibili, per riempire i loro depositi e partire
per le loro missioni militari, come si conveniva all'Elba che il
regime fascista battezzò “sentinella avanzata dell'Impero”,
essendo l'Isola l'ultimo avamposto italiano di fronte alla Corsica
francese. Vi era annessa una caserma militare, che all'epoca era
abitata da circa 250 persone fra ufficiali, sottufficiali e soldati.
La struttura era stata ricavata sfruttando quello spazio che era
stato previsto dall'architetto Camerini, l'ideatore e il progettista
della Città di Cosmopoli, nella prima decade del Cinquecento.
Successivamente l'architetto Pier Luigi Nervi intervenne, per
realizzarci questa importante base logistica della Marina miliare,
come ancor oggi la si può ammirare. Parliamo di una superficie pari
a circa 25 metri quadrati, che, insieme all'area fuori terra (circa
45 mila mq), ricadeva sotto il
presidio militare. In seguito, però,
allo scandalo relativo alla vendita illegale dei residui di
carburante rimasti ancora nei depositi (nafta pesante), il Comando
dell'Alto Tirreno decise, nel 1982, di chiudere l'entrata
all'impianto sotterraneo, lasciando a guardia dello stesso e
dell'area fuori terra solo personale civile con il compito di
ottemperare all'ordinaria manutenzione. Così è rimasto fino ai
giorni nostri. Fino a quando un gruppo di volontari di Portoferraio
(lo stesso che lavora gratuitamente per la cura del territorio e il
decoro del verde pubblico), insieme con gli operai della società
partecipata Cosimo de' Medici che hanno pensato a ripulirla, non ha
organizzato una visita al suo interno. Vi hanno partecipato una
sessantina di persone che hanno visionato per due ore e più l'intero
dedalo di sotterranei da forte Falcone alla punta del Gallo. Il
gruppo di volontari di Portoferraio (che era diretto da Vincenzo
Fornino) ha visto camerate, depositi, sistemi di controllo,
centraline telefoniche e quant'altro. Tutto (o quasi) ancora come è
stato abbandonato. Degli apparecchi telefonici che esistevano in
diversi comparti ne sono rimasti pochi. Qualcuno, notte tempo, non ha
trovato di meglio che staccarli e portarseli via. E' vero anche che
ci ha messo gli occhi sopra la cooperativa Arcipelago Toscano, di cui
è presidente Carlo Bensa. L'associazione vorrebbe recuperare
l'intero sistema, per farlo diventare un punto nevralgico e meta per
visite di studiosi, per farlo diventare un punto nevralgico e meta
per visite di studiosi, ospiti o semplici curiosi che desiderano
prendere contatto con i luoghi che hanno scritto la storia
contemporanea sulla maggiore isola della Toscana. Però se ne parla
dall'estate 2013, senza riuscirne a venirne a capo.
sabato 4 novembre 2017
Agorà si collega con Rio Marina e Rio nell'Elba
Con ancora fresco nella mente il
collegamento trasmesso da “Agorà” su Rai3 da Rio Marina e Rio
Elba e soprattutto dopo aver sentito le battute ironiche della
giornalista Irene Benassi e dello studio di Roma, in merito al
prossimo Referendum indetto dalla Regione sulla riunificazione delle
due municipalità di Rio (la Marina di Rio ha raggiunto la sua
autonomia nel 1881, staccandosi da una costola da Rio Castello), si
deve prendere atto che il clima sul versante orientale dell'Isola non
è sereno. Affatto. In un certo senso come fu all'epoca in cui ci fu
la divisione. Oggi, come allora, a Rio Castello gli animi sono
accesi. Irosi. Non disposti ad accogliere qualsiasi compromesso che
ne cambi lo 'status quo'. I Castellani attaccati, ancorati ai propri
privilegi. In più sospettosi che, qualora si procede alla unità dei
due Rio, chi è destinato a perdere le proprie prerogative sia
proprio il colle, rispetto alla piaggia, più numerosa per abitanti e
anche più propositiva in termini di imprenditoria privata e
pubblica. La parte del brutto anatroccolo sarebbe, comunque destinata
a Rio Elba. Ragion per cui, non si metta mano alla “rivisitazione”
del Comune. Così la pensano i sostenitori del No. Ognuno deve stare
padrone in casa propria, dicono. Strano, ma è lo stesso copione
(naturalmente a parti invertite, perché allora ci si staccò, mentre
oggi c'è la volontà di riunirsi in un unico ente pubblico), meglio
dire atteggiamento di oltre cent'anni fa, quando allora la classe
dirigente di Rio Castello, costituita prevalentemente da borghesi e
ricchi possedenti terrieri, si arroccò nella decisione di non
concedere l'autonomia (poi invece ottenuta) agli abitanti della
piaggia, formata da padroni marittimi e imprenditori, arrivando anche
a veri e propri tumulti di piazza. Due partiti, due posizioni
contrapposte, che hanno fatto dichiarare nella trasmissione di Agorà
a Senio Bonini, elbano di nascita, quindi conoscitore della storia
locale, “Sia quelli del coccolo in su, sia quelli del coccolo in
giù, sono tutti riesi”. Come dire caparbi. Irriducibili. Insomma
al colle si ha paura di perdere la propria identità. Ecco come
riassume la situazione Pino Coluccia, ex sindaco di Rio Elba .e oggi
sostenitore del No: se vince il Sì Rio perderà i suoi patroni Ss.
Giacomo e Quirico martire; non ci saranno più lo stemma e il
gonfalone; non si avranno più il sindaco e le risorse per il
territorio; Rio Elba perderà gli uffici comunali, la banca e la
posta, come pure le scuole; e vedrà compromesso il valore
patrimoniale.
I fautori della riunificazione si fanno
forti invece del fatto che gli incentivi statali sono molto
rilevanti. In termini pro capite si parla, in 12 fusioni su 15 del
contributo che oscillerebbe tra 100 e 180 euro. Nelle realtà più
piccole, come quella isolana appunto, si supererebbero addirittura i
400 euro. Per favorire i percorsi di fusione, la legge di bilancio
2017 dello Stato ha innalzato gli incentivi (per un periodo di dieci
anni), portandoli dal 40 al 50 per cento dei trasferimenti statali,
con una soglia massima di 2 milioni di euro. Ma non bastano gli
incentivi economici, per ristabilire l'armonia tra le due Rio. In un
certo qual modo gli amici di Rio Castello hanno ragione di essere
titubanti. Non sanno, per esempio, quale sarà l’idea progettuale
per il nuovo comune. Quali saranno le iniziative da sviluppare
insieme, rese possibili solamente dall’unione delle forze. Tutti
quesiti cui si doveva rispondere. Che, comunque, compongono l’oggetto
del percorso di partecipazione, fondamentale, per raccogliere e
consolidare il consenso. Siamo tutti convinti che serva una spinta
riformista maggiore da parte dello Stato, per accelerare il percorso
di riorganizzazione delle istituzioni locali. Qui all'Elba, come
altrove. Incentivi a parte, il consenso locale va costruito con
un’importante operazione culturale, condotta su base locale e
nazionale.
venerdì 6 ottobre 2017
Quel mistero dello scheletro ritrovato a San Giovanni
Portoferraio (Isola d'Elba) - E lo scavo archeologico di San Giovanni alla fine, dopo cinque campagne già effettuate, ha restituito anche i resti di un corpo umano. Non solo dolia, dunque.
Uniti a frammenti di materiale edile appartenuti alla villa rustica romana (attorno al 100 a. C.) .
«Ora ci scappa pure il morto – ironizza Franco Cambi docente di archeologia presso l’Università di Siena e principale ideatore dello scavo nel podere della famiglia Gasparri – Oggi come oggi è prematuro azzardare qualsiasi ipotesi. Non sappiamo neppure se si tratta di un corpo maschile o di una donna. Lo si capirà quando riusciremo ad andare avanti nel recupero e potremo arrivare al bacino».
Per prime sono state portate alla luce le ossa degli arti, le gambe e le braccia stese. «Da quello che ci è dato sapere – continua ancora il docente universitario originario dell’Elba – non doveva essere molto alto. Ci troviamo di fronte a un individuo di circa un metro e 50 centimetri circa. Attorno non è stato ancora rinvenuto nulla di interessante».
Il ritrovamento di un cadavere sepolto fra i resti di quella che a tutti gli effetti appare come una villa di campagna franata per un grande incendio che l’ha devastato definitivamente (la villa fu dopo questo periodo abbandonata per sempre) è davvero eccezionale, considerato che una scoperta del genere non era mai stata effettuata nei precedenti scavi nel podere di San Giovanni. Ciò è stato possibile anche grazie all’apporto delle nuove tecnologie impiegate in questo scavo, fra queste il magnetometro, lo strumento che è in grado di misurare il campo magnetico di una particolare area destinata alla ricerca.
«Morto a causa del crollo della villa e sepolto tra le macerie? Non mi sentirei di affermare una cosa del genere – continua sempre Franco Cambi – Può darsi che la datazione della morte sia da riferirsi a qualche decennio dopo l’evento disastroso. L’uomo è morto e sepolto tra le rovine della villa rustica. È stato adagiato in una piccola fossa e neppure tanto profonda. Nessun altro ornamento funebre. Tutto ci lascia pensare che siamo dinanzi a un individuo di bassa condizione sociale».
Come è stata rinvenuta la tomba così estemporanea e anche abbastanza improvvisata, creata sul momento, ci fa pensare a un evento abbastanza circostanziato e dettato dalla necessità di non avere molto tempo a disposizione per curare ulteriormente i resti di un uomo.
Come se gli altri componenti del gruppo al quale il defunto apparteneva avessero urgenza di recarsi altrove e di lasciare quel luogo. In fuga da chi o da che cosa? Oppure non disponessero di altre risorse. Una buca poco profonda. E gettati sopra il corpo rottami di costruzioni, crollati (questi sì) per effetto di un disastroso incendio. Intanto sono iniziate le analisi dei resti che potranno fornire altre e più interessanti informazioni.
«Sapevamo che la villa rustica era abitata – conclude Franco Cambi – Ora ci troviamo dinnanzi a questo recupero, che però non sconvolge affatto le tesi che avevamo redatto attorno a questo insediamento rurale romano di San Giovanni. Semmai lo arricchisce». (da "Il Tirreno" di Livorno)
Uniti a frammenti di materiale edile appartenuti alla villa rustica romana (attorno al 100 a. C.) .
«Ora ci scappa pure il morto – ironizza Franco Cambi docente di archeologia presso l’Università di Siena e principale ideatore dello scavo nel podere della famiglia Gasparri – Oggi come oggi è prematuro azzardare qualsiasi ipotesi. Non sappiamo neppure se si tratta di un corpo maschile o di una donna. Lo si capirà quando riusciremo ad andare avanti nel recupero e potremo arrivare al bacino».
Per prime sono state portate alla luce le ossa degli arti, le gambe e le braccia stese. «Da quello che ci è dato sapere – continua ancora il docente universitario originario dell’Elba – non doveva essere molto alto. Ci troviamo di fronte a un individuo di circa un metro e 50 centimetri circa. Attorno non è stato ancora rinvenuto nulla di interessante».
Il ritrovamento di un cadavere sepolto fra i resti di quella che a tutti gli effetti appare come una villa di campagna franata per un grande incendio che l’ha devastato definitivamente (la villa fu dopo questo periodo abbandonata per sempre) è davvero eccezionale, considerato che una scoperta del genere non era mai stata effettuata nei precedenti scavi nel podere di San Giovanni. Ciò è stato possibile anche grazie all’apporto delle nuove tecnologie impiegate in questo scavo, fra queste il magnetometro, lo strumento che è in grado di misurare il campo magnetico di una particolare area destinata alla ricerca.
«Morto a causa del crollo della villa e sepolto tra le macerie? Non mi sentirei di affermare una cosa del genere – continua sempre Franco Cambi – Può darsi che la datazione della morte sia da riferirsi a qualche decennio dopo l’evento disastroso. L’uomo è morto e sepolto tra le rovine della villa rustica. È stato adagiato in una piccola fossa e neppure tanto profonda. Nessun altro ornamento funebre. Tutto ci lascia pensare che siamo dinanzi a un individuo di bassa condizione sociale».
Come è stata rinvenuta la tomba così estemporanea e anche abbastanza improvvisata, creata sul momento, ci fa pensare a un evento abbastanza circostanziato e dettato dalla necessità di non avere molto tempo a disposizione per curare ulteriormente i resti di un uomo.
Come se gli altri componenti del gruppo al quale il defunto apparteneva avessero urgenza di recarsi altrove e di lasciare quel luogo. In fuga da chi o da che cosa? Oppure non disponessero di altre risorse. Una buca poco profonda. E gettati sopra il corpo rottami di costruzioni, crollati (questi sì) per effetto di un disastroso incendio. Intanto sono iniziate le analisi dei resti che potranno fornire altre e più interessanti informazioni.
«Sapevamo che la villa rustica era abitata – conclude Franco Cambi – Ora ci troviamo dinnanzi a questo recupero, che però non sconvolge affatto le tesi che avevamo redatto attorno a questo insediamento rurale romano di San Giovanni. Semmai lo arricchisce». (da "Il Tirreno" di Livorno)
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