Portoferraio - La Fondazione "Villa romana delle
Grotte" e con essa il progetto sulla rada di Portoferraio sono stati
costantemente presenti nei vari simposi culturali che si sono tenuti
recentemente a Roma, Firenze e Pisa. E presto ci sarà un appuntamento in
programma anche al centro congressuale De Laugier. Da parte sua la Fondazione
delle Grotte ha preso parte, quest'inverno, a tutta una serie di presentazioni
a livello nazionale, sempre finendo per parlare della Rada di Portoferraio. È
stata invitata da Aithale, gruppo di ricerca delle tre università toscane
responsabili dello scavo archeologico della villa rustica romana di San
Giovanni e che sono l'Università di Siena e Scuola superiore normale di Pisa
per archeologia e università di Firenze per scienze della terra. «La Fondazione
"Villa romana delle Grotte" - scrive la presidente Cecilia Pacini, -
nella rinnovata veste che comprende anche il Comune di Portoferraio, punta
sulla direzione scientifica quale elemento cardine per l'offerta culturale: con
il contributo dell'archeologa Laura Pagliantini che ci ha rappresentato finora,
si afferma nel sistema museale di Portoferraio e dell'Arcipelago Toscano. Il
futuro restauro delle cisterne della Villa, progetto lanciato grazie a un
finanziamento di Asa spa che ne permette la sua impostazione, apre ulteriori
sviluppi». Per cui dal salone dell'archeologia e turismo che si è appena
concluso e che ha visto partecipare tra i relatori anche Alberto Angela,
riempiendo all'inverosimile la sala Congressi di Firenze, alla Crypta Balbi del
museo romano a Roma, alla prossima presentazione alla Scuola normale superiore
di Pisa. In ognuno di questi appuntamenti ricordati il progetto della rada di
Portoferraio è stato il vero protagonista. Ora si guarda già al prossimo
appuntamento (entro fine mese) a Portoferraio, sull'Isola d'Elba. Sarà
l'occasione perché Franco Cambi e Laura Pagliantini, ambedue docenti del
dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali dell'università di Siena
faranno conoscere agli elbani i risultati dell'ultima campagna di scavi nel
podere dei Gasparri a San Giovanni che ha portato al ritrovamento di uno
scheletro presumibilmente di un giovane morto e sepolto abbastanza
frettolosamente. Inoltre i due docenti relazioneranno sull'intera campagna di
scavi a San Giovanni iniziati nel 2011 con l'intento di far luce sull'attività
siderurgica etrusca e poi romana sull'Isola. Poi la ricerca ha preso un'altra
strada e ha scoperto una "protovilla" situata presso il mare, dotata
di un piccolo porticciolo. I lavori per la costruzione di questa "pars
rustica" della villa rappresentano la fine della fase metallurgica elbana.
Infatti, a causa della difficile reperibilità del combustibile necessario per
la lavorazione del ferro, circa nel 100 a. C. sull'Isola cessa l'attività di estrazione
di questo minerale, che era stata portata avanti fin dagli etruschi. L'area
attualmente sede degli scavi viene trasformata quindi in una zona agricola di
grande pregio, con colture di vigneti, oliveti, frutteti. Inoltre sarà
l'occasione per il definitivo lancio del progetto Smart, il nuovo sistema
museale dell'Arcipelago Toscano, finanziato dalla Regione Toscana e adottato da
tutti i Comuni delle isole toscane. Lo Smart è cofinanziato dalla gestione
associata per la promozione turistica dei Comuni dell'isola d'Elba. Si tratta
di un vero cambiamento epocale per il patrimonio culturale delle isole.
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sabato 10 marzo 2018
domenica 18 febbraio 2018
Capolavori d'arte nascosti
L’amore per la cultura e non solo. Anche per l’arte
tout court. La passione per il collezionismo, la natura e le armi. Tessera dopo
tessera prende forma la figura poliedrica e dai molteplici interessi (in parte
trasmessi in eredità dalla famiglia, in parte dall’ambiente fiorentino che ha
frequentato per lunghi periodi) di Mario Foresi, il fondatore della biblioteca comunale
che porta il suo nome. Ma anche l’artefice di un vero tesoro conservato nei
magazzini. Qualche volta esposto, sia pure a tratti. Il più delle volte invece
lasciato sulle scansie. Una collezione accumulata e arricchita via via di vere
e proprie eccellenze. Poi donata alla comunità elbana, a dimostrazione del suo
smisurato amore per l’Isola, perché le nuove generazioni ne traessero
vantaggio. In primis per la loro formazione culturale. Convinto qual era che i
saperi rendono gli uomini sempre più liberi. Lo spinse la passione per le
lettere a raccogliere opere del ‘500, ‘600 e ‘700. Alcune di queste in edizioni
così rare e preziose al punto che neppure la biblioteca Nazionale di Firenze ne
conserva una copia. Sono state fatte oggetto di studi universitari. E una
mostra fu allestita nel 1983. Poi le cinquecentine furono depositate sugli
scaffali. L’esposizione fu curata da Marina Grazia Barboni, in collaborazione
con il Comune di Portoferraio, la Regione toscana e il Dipartimento Istruzione,
Servizio beni librari e archivistici. In quella occasione fu anche pubblicato
il catalogo dell’intera raccolta; alcuni esemplari furono esposti in bacheche
di vetro alla visione del pubblico che ebbe così l’opportunità di ammirare i
frontespizi (e anche il resto conservato fino a quel momento sugli scaffali)
dei volumi. Stessa sorte che hanno seguito le tavole anatomiche edite a Venezia
agli inizi del 1800, a cura di Leopoldo e Floriano Caldani, fisiologi,
anatomisti e scienziati italiani. Infatti, nella primavera del 2008
nell’archivio storico presso il centro De Laugier, fu organizzata
un’esposizione nel corso della quale furono mostrati quattro tomi di disegni e
un’altra opera appena restaurata con il contributo della Fondazione Cassa di
Risparmi di Livorno, formata da 400 fogli. L’idea fu lanciata da Giuseppe Battaglini,
direttore all’epoca della Foresiana. Il quale, non potendo disporre dello
spazio necessario per sistemare adeguatamente l’intera collezione, pensò bene a
praticare il sistema della rotazione delle tavole. Ogni giorno, qualcosa di
diverso e non meno interessate della giornata precedente, mettendo però a
disposizione del visitatore il volume contenente la completa raccolta. Fu così
tanto il clamore di queste tavole che furono diversi atenei italiani a
interessarsi alla collana di Foresi. Sempre nella primavera del 2008 una
seconda mostra, non meno interessante della precedente. Si trattava questa
volta di armi. In tutto una ventina, alle quali si aggiunsero successivamente altre
acquisizioni di varia provenienza, compresi i lasciti di altri elbani, come
quello del generale Ulisse Aronni. E' lo stesso Foresi, nel suo inventario
dattiloscritto, a parlarcene dettagliatamente. Sono pezzi unici. Eccezionali.
Con un pedigree di tutto rispetto, come le spade del duello del patriota
Gabriele Pepe e Alphonse de Lamartine esposte in vetrina nella pinacoteca, come
le due pistole di proprietà di re Giorgio d'Inghilterra o quelle appartenute al
principe Luigi Napoleone. Tutti esemplari attorno ai quali si è dipanata la
storia del continente europeo. E si arriva così, infine, al maggio 2013.
Nell’archivio storico del Comune fu presentato l’erbario di Joseph Antoir,
medico chirurgo militare francese con la passione per la botanica. Il dottore realizzò
la raccolta intorno agli anni 1810-1830. Essa comprende piante dell'Isola
d'Elba, della Toscana, dell'Egitto, della Siberia, della Cina. Nei depositi
della Foresiana ci sono 20 grosse scatole numerate progressivamente. Sulla
costola sono applicate a mano e in stampatello le etichette dove spicca, a
grossi caratteri, la scritta "Herbier". Scrisse su "Lo
Scoglio" Aulo Gasparri: "Raccolte in fascicoli si trovano ben
conservate alghe, licheni, funghi, felci e piante di ogni genere. Ogni
esemplare è ben disseccato come se fosse stato raccolto di recente". Una
cura quasi maniacale per i particolari, un valido aiuto per conoscere meglio il
mondo esterno. Per apprezzarlo, amarlo e modificarlo senza però distruggerlo.
Peccato che tutto questo sia chiuso in scatole di cartone accatastate nel
deposito del De Laugier.
venerdì 2 febbraio 2018
Storia di un brigante
Il brigante Guazzino (al secolo Antonio Guazzini),
originario di Casacce Sinalunga (Siena), non è così famoso come il ‘Passator
cortese’ (Stefano Pelloni, figura leggendaria della Valmarecchia di Romagna)
immortalato da Giovanni Pascoli in una sua famosa lirica e da Garibaldi come
bravo italiano che sfida i dominatori, ma anche il senese, ai suoi tempi, è
stato un fuorilegge temuto nel Granducato di Toscana, se per eseguire la
condanna a morte sulla forca, cui fu condannato dal tribunale il 22 febbraio
1817 per omicidio e grassazione, fu chiamato a Firenze dallo Stato Pontificio
un professionista in termini assoluti, quel tal mastro Titta, “er boia de
Papa-re” (all’anagrafe romano rispondeva al nome di Giovanni Battista Bugatti),
dall’alto delle sue 514 sentenze di morte eseguite in quasi 70anni d'attività.
Così celebre mastro Titta, da essere perfino interpretato da Aldo Fabrizi nelle
prime edizioni del ‘Rugantino’. Due big, insomma: uno il carnefice, l’altro il
bandito. Guazzino assaliva le carrozze e terrorizzava i viaggiatori che si
spostavano da una città all’altra in questa parte della Toscana. Titta li
consegnava invece alla giustizia divina. Due vite che a un certo punto
s’incrociarono: il primo, ladro conclamato. Il secondo, carnefice. Due storie
che s’incastrano perfettamente, trovando l’una ragion d’essere nell’altra.
Comunque sia, sarebbero finite nell’alveo delle infinite vicende giudiziarie
ottocentesche che hanno caratterizzato l’Italia preunitaria, se un personaggio
non le avesse tenute insieme e ce li avesse tramandate. Parliamo di Sandro
Foresi, letterato elbano di raffinata e profonda cultura, poeta lui stesso,
personaggio eclettico, amante dell’arte tout court con la passione del
collezionismo. Aveva un fiuto particolare nel selezionare gli oggetti.
Raccoglieva soltanto ciò che gli trasmetteva particolari emozioni e sensazioni
forti. E dovette avvertire un sentimento del genere, quando si trovò di fronte
al crocifisso (alto non più di 25 cm) che gli mostrò l’amico pittore Emilio
Lapi. Non tanto per il simbolo in sé, quanto per la storia che era legata a
esso. Il pittore fiorentino gli confessò di averlo ricevuto da un frate, quel
tal padre Bernardino dell’oratorio che era nei pressi di ponte alla Carraia. Il
religioso era solito accompagnare i condannati a morte dalle prigioni
granducali, dove erano stati alloggiati immediatamente dopo il pronunciamento
del tribunale, fino al patitolo di Porta alla Croce, esattamente al centro
dell’odierna piazza Beccaria, dove attualmente si trovano le isole pedonali.
Questo piccolo crocefisso fu porto al condannato. Che era appunto Guazzino,
pochi istanti prima che mastro Titta infilasse al collo del disgraziato la
corda con il nodo scorsoio. Fin qui niente di eccezionale; anzi uno spettacolo
abbastanza consueto, se non fosse per il fatto che Guazzino fu l’ultimo a
esalare il respiro dalla forca. Dopo di lui infatti, il governo granducale optò
per la decapitazione, più istantanea e meno dolorosa. Come si sa il Granducato
abolì la pena di morte il 30 novembre 1786, per poi reinserirla nel 1790 per i
cosiddetti crimini eccezionali; infine l’abrogò definitivamente il 30 aprile
1859, alla vigilia del referendum che sanciva l’unione della Toscana al neonato
Stato Italiano. Quindi Guazzino fu l’ultimo a subire le sofferenze dell’esecuzione
capitale e per questo che Mario Foresi chiese e ottenne il crocifisso, al quale
si premunì di dotarlo di un piedistallo. Sotto di esso di sua mano scrisse
come, quando e da chi l’aveva avuto. Era l’anno 1888. E mentre mastro Titta,
grazie alla sua conclamata abilità in ogni genere di supplizio dalla mazzola,
allo squarto, alla forca per finire alla ghigliottina, indossando sempre una
tunica e cappuccio rosso quasi fosse un attore teatrale, si trasformò in
personaggio leggendario, Guazzino invece non è andato oltre a uno sbadito
ricordo di storia, sia pur contribuendo con le sue imprese a creare attorno
alla figura del brigante, nei molti scritti post-unitari, quell’alone romantico
di generoso ribelle, eroe di protesta individuale e disperata contro gli
oppressori. In conclusione, un altro reperto storico conservato in una teca nel
deposito della Foresiana, a dimostrazione del fatto, qualora ce ne fosse bisogno,
di quanti tesori nascosti si trovino in quelle stanze.

venerdì 19 gennaio 2018
I tesori della cosiddetta arte minore elbana da salvaguardare
PORTOFERRAIO
Un patrimonio artistico lasciato nei magazzini a
invecchiare. O a ricoprirsi di polvere, in attesa che gli enti preposti
decidano concordemente di rendere fruibile alla collettività il bene del quale
sono in possesso. E’ la storia della statua lignea di Sant’Antonio da Padova
che da anni si trova nel deposito della biblioteca Foresi, al centro De
Laugier. Gli fa compagnia il lapidino di circa 80 centimetri, con il simbolo
mariano bello in mostra (lettera A sovrapposta a una M) che stava sopra
l’ingresso del tempietto, rinvenuto per caso nel settembre dell’anno scorso da
Paolo Cassini. Ambedue provengono dalla cappella votiva dell’ex tonnara
dell’Enfola, attuale sede del parco nazionale dell’arcipelago toscano. Il quale
annunciò, alla fine del mese di settembre 2017 che, grazie alla collaborazione
con gli Amici dell’Enfola e il Comune di Portoferraio, era terminato il
restauro di quella che fu la Cappella della Madonna del Rosario, a ridosso
dell'arsenale della tonnara. A fianco la sagrestia e il magazzino del sale. La
cappellina era arricchita sull’altare da una tela raffigurante la “Madonna del
rosario con san Domenico” e, in una nicchia sulla destra dell’altare stesso,
dalla statua lignea di Sant’Antonio da Padova. Al lato erano murate le lapidi
di Fortunato Senno (1746-1823), figlio di Pellegro, affittuari della tonnara.
Il complesso era abitato per soli alcuni mesi all’anno dai tonnarotti che
vivevano come in una piccola comunità, in cui non poteva mancare l’elemento
religioso. Il quadro restaurato lo si può ammirare oggi nella chiesa di San
Giuseppe di Carpani, sotto la cui giurisdizione ricade la frazione dell’Enfola.
Dipinto e statua sono stati restaurati grazie alla Fondazione Cassa di Risparmi
di Livorno, in occasione della “Quinta settimana dei beni culturali e
ambientali”, organizzata nell’aprile 2009. Dopo la presentazione al pubblico
sorse il problema in quale sito collocare le opere d’arte. La soluzione più
scontata apparve la vecchia cappellina dell’Enfola, che però nel frattempo era
divenuta un magazzino. Comune di Portoferraio, Soprintendenza, Curia di Massa
Marittima-Piombino e ‘Amici dell’Enfola’ concordarono di affidare la statua
alla biblioteca Foresi, in attesa che si eseguissero i lavori di restauro della
piccola cappella. E lì, a tutt’oggi è rimasta. Si tornò a parlare di queste due
opere d’arte nel 2010 per mezzo di una classe della media Pascoli dell’allora
insegnanti Marisa Sardi e Rita Rossi che condusse un’indagine approfondita. La
scultura presenta il santo da Padova che tiene in braccio il Bambinello. “Non
si conosce l’autore – si legge nella relazione degli studenti – dell’opera
risalente al XVII secolo, ma è lecito pensare che sia genovese, come i
proprietari della fabbrica, la famiglia Senno”. La statua presenta il retro
liscio e vuoto. Il che fa pensare che in precedenza era una polena, che poi fu
usata nella chiesetta dell’Enfola. Veniamo al quadro. Il trittico della
“Madonna del rosario”, con san Domenico e san Pietro Martire (in alcuni casi
con santa Caterina da Siena) di origine domenicana, apparve la prima volta a
Colonia ed ebbe una grande diffusione nel XVII secolo. Nella tela dell’Enfola è
rappresentato solo san Domenico con la stessa sulla testa, simbolo della luce
che illumina le menti, secondo la tradizione dei Catari. Conclude la relazione
degli studenti: “Queste opere sono un bene artistico da apprezzare e da
tramandare ai posteri”.
domenica 14 gennaio 2018
Il canto della Befana a Rio Castello
Come ogni anno, anche quest’anno, per le piazze del paese di
Rio nell’Elba e le sue viuzze medievali si è cantata la Befana, il canto con
cui un gruppo di volontari riesi, accompagnati da quattro o cinque strumenti
musicali, faceva il giro delle famiglie del paese e fermandosi ai portoni dava
l’annuncio che era nato il Redentore del Mondo in un lontano borgo della
Palestina e augurava al padron di casa e a tutta la compagnia le più belle nove
che si potessero immaginare. A patto poi che il padron di casa, sentendosi
chiamare per nome, non si affacciasse sulla soglia di casa e a quei quattro
cantori e musicanti non aprisse la cantina per far loro assaggiare il vino
novello di vendemmia. Quando poi non c’era anche da consumare uno spuntino a
base di salame o salsicce comprate fresche fresche al macello di Romeo. Sicché,
fermati da una parte, rifai una sosta da un’altra (non si poteva rinunciare di
non accettare il piccolo rinfresco, altrimenti il capofamiglia si sarebbe
offeso), alla fine i befanotti più che gioiosi finivano per essere brilli e le
note, vuoi per il freddo dei grigiori invernali, vuoi per effetto del brunello
così generoso, stentavano a uscire dagli ottoni e il capo corista non faceva
più notizia se si scordava le parole. Così si continuava fino a tarda notte. E
per noi fanciulli che andavamo a letto abbastanza presto, altrimenti la Befana,
vedendo ancora accesa la luce di cucina, non avrebbe riempito le calze che
pendevano dal camino pronte ad accogliere i regali che avevamo richiesto,
facevamo fatica ad addormentarci per l’agitazione. Ma volevamo aspettare il
concertino dei musicanti e sentire pronunciato dal coro il nome della nostra famiglia.
Era segno di rispetto. Ma anche d’importanza nel contesto paesano, che faceva
crescere l’autostima degli interessati. Così era la tradizione. Così si faceva
nel corso degli anni. Tutto questo avveniva in comune accordo fra i musicanti e
il gruppo di volontari, gli stessi di ogni anno. Ma all’epoca, l’evento non
richiamava tante persone. Come accade oggi. Com’è avvenuto nell’ultimo evento
di quest’anno. Una traccia di quest’antica usanza ce la fornisce lo storico
Eugenio Branchi, già nel 1839, che aggiunge anche il testo del canto.
Eccolo, come ci è stato documentato: «Noi vi diam la buonasera, generosa
compagnia, saluteremo il padron di casa con la nobil compagnia. Santa nova noi
vi diamo: che l'è nato il Re del Mondo in un parto così giocondo, noi convien
che l'annunziamo. Egli è nato in Betlemme, in città della Giudea presso di
Gerusalemme, sopra il fien dove giacea. Per presepio una capanna, fatta l'è di
stipa e fieno, la soffitta era di canna, le lucenti a ciel sereno. I Re Magi
sono partiti dalla propria abitazione, sono giunti a questi lidi per trovare il
Redentore. "Buona gente, dove andate che portate tanti doni?"
"Noi andiamo a trovare il Signore dei signori". Falso Erode e
traditore diede luce ai suoi intenti, per uccidere il Signore fece strage
d'innocenti. La Madonna fu avvisata che di lì fosse partita, ubbidiente all'imbasciata
si nascose fra la stipa. Ma la stipa traditora in quel punto fu fiorita, diede
segno a tali signori che di lì fosse partita. "Buona donna, dove andate e
in grembo che ci avete?" "Io ci ho quel che cercate, gran Signor se
lo volete." Un di loro la guardava per vedere cosa ci aveva, e dal grembo
grano versava, bel miracolo faceva. La Befana abbiam cantato in onor di Dio
potente, saluteremo il padron di casa. Felice notte, o brava gente». E
annunciava che i cantori e i musicanti sarebbero ritornati il prossimo anno, come
puntualmente avveniva. Fino a quest’edizione 2018. Naturalmente le strofe
venivano di volta in volta riviste, adattate e anche semplificate. Ma
soprattutto ridotte. E non si sa se per ritornare presto nelle proprie case o
se succedeva per effetto delle troppe frequentazioni nelle cantine dei
cittadini riesi. A questo proposito ricordo un episodio (anch’io feci parte,
quando l’età me lo permise, del gruppo dei cantori riesi) che riguarda il
suonatore del tamburo. Durante uno degli spostamenti dei befanotti tra il rione
alto e quello basso del paese, lo perdemmo. Ce ne accorgemmo solo quando ci
disponemmo per cantare alla porta di un riese ai Canali. Eseguimmo il pezzo. Ma
al termine ci mettemmo a cercarlo. Lo trovammo lungo uno stradello, disteso
sotto un enorme lentisco con il tamburello sopra il torace. “C’era buio e sono inciampato
– si giustificò – Però sono stato bravo – concluse – Nella caduta sono riuscito
a non romperlo”.
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